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  1. #191


    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  2. #192

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  3. #193

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  4. #194

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  5. #195

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  6. #196

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  7. #197

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  8. #198

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  9. #199

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
    Coordinatore SCUDERIA CORVETTE ITALIA
    Coordinatore SHARKS T​EAM MOTORSPORT

  10. #200

    eccoti il III° libro dell'ulisse:


    Uscito delle salse acque vermiglie,
    Montava il sole per l'eterea volta
    Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
    Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
    Quando alla forte Pilo, alla cittade
    Fondata da Nelèo, giunse la nave.
    Stavano allor sagrificando i Pili
    Tauri sul lido, tutti negri, al dio
    Dai crini azzurri, che la terra scuote.
    Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
    Cinquecento seduti, e per ciascuna
    Svenati nove buoi, di cui, gustate
    Le interïora, ardean le cosce al nume.
    La nave intanto d'uguai fianchi armata,
    Se ne venìa dirittamente a proda.
    Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
    Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
    Telemaco, e Minerva il precedea,
    La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
    Che gli accenti al garzon primiera volse:
    «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
    La pueril vergogna. Il mar passasti,
    Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
    Destin soggiacque il generoso padre.
    Su, dunque, dritto al domator t'avvia
    Di cavalli Nestorre, onde si vegga
    Quel ch'ei celato nella mente porta.
    Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
    Poiché mentir non può cotanto senno».
    Il prudente Telemaco rispose:
    Mentore, per qual modo al rege amico
    M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
    Non sono ancor del favellar de' saggi:
    Né consente pudor, che a far parole
    Cominci col più vecchio il men d'etade».
    Ma di tal guisa ripigliò la dea,
    Cui cilestrino lume i rai colora:
    «Telemaco, di ciò che dir dovrai,
    Parte da sé ti nascerà nel core,
    Parte nel cor la ti porranno i numi:
    Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
    Non ti mandò la madre, e non ti crebbe».
    Così parlando, frettolosa innanzi
    Palla si mise, ed ei le andava dopo.
    Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
    Ove Nestor sedea co' figli suoi,
    Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
    Altre avvampavan delle carni, ed altre
    Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
    Ebbero appena i forestier, che incontro
    Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
    E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
    Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
    Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
    Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
    Appo la mensa gli adagiò tra il caro
    Suo padre ed il germano Trasimede:
    Delle viscere calde ad ambi porse;
    E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
    E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
    Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega
    Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
    Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
    Ma i libamenti, come più s'addice,
    Compiuti e i prieghi, del licor soave
    Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
    Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
    Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
    Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
    Parmi con me: quindi a te pria la coppa».
    E il soave licor le pose in mano.
    Godea Minerva che l'uom giusto pria
    Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
    E subito a Nettun così pregava:
    «Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
    E questi voti appagar degna. Eterna
    Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
    E poi grata mercede a tutti i Pili
    Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
    Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
    Perché venimmo, su le patrie arene
    Con la negra torniam rapida nave».
    Tal supplicava, e adempiere intendea
    Questi voti ella stessa. Indi al garzone
    La bella offrì gemina coppa e tonda,
    Ed una egual preghiera il caro figlio
    D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
    Le pingui cosce, degli spiedi acuti
    Si dispiccaro e si spartiro: al fine
    L'alto si celebrò prandio solenne.
    Giunto al suo fin, così principio ai detti
    Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Gli ospiti ricercare allora è bello,
    Che di cibi e di vini hanno abbastanza
    Scaldato il petto e rallegrato il core.
    Forestieri, chi siete? e da quai lidi
    Prendeste a frequentar l'umide strade?
    Trafficate voi forse? O v'aggirate,
    Come corsali, che la dolce vita,
    Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»?
    Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
    Spirò nel seno, acciò del padre assente
    Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
    Di sé spargesse per le genti il grido:
    «O degli Achei», rispose, «illustre vanto,
    Di satisfare ai desir tuoi son presto.
    Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
    Itaca alpestre, ed è cagion privata
    Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
    Dietro alla fama, che riempie il mondo,
    Del magnanimo Ulisse, onde racconta
    Pubblica voce che i Troiani muri,
    Combattendo con teco, al suol distese.
    Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
    Non ignoriam dove finiro i giorni.
    Ma di lui Giove anco la morte volle
    Nasconderci; né alcun sin qui poteo
    Dir se in terra o sul mar, se per nemico
    Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
    Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
    Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
    Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
    D'un qualche pellegrin; però che molto
    Disventurato il partorì la madre.
    Né timore, o pietà, del palesarmi
    Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
    Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
    Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
    Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
    Tel rimembra ora, e non tacermi nulla».
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
    Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
    O quando erranti per le torbid'onde
    Ce ne andavam sovra le navi in traccia
    Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
    O allor che pugnavam sotto le mura
    Della cittade alta di Priamo, dove
    Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
    Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
    Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
    Quell'Antiloco là, forte e gentile,
    Mio diletto figliuol, che abil del pari
    La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
    Se tu, queste sciagure ed altre assai
    Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
    Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
    Leveresti di nuovo in mar le vele,
    Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
    Nove anni, offese macchinando, a Troia,
    Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
    Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
    Ci consentì nel decimo a fatica.
    Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
    Di accorgimento gareggiar: cotanto
    Per inventive Ulisse e per ingegni
    Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
    E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
    Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
    Tanto di lui tenère uom, che d'etade
    Minor tanto è di lui, vero non parmi.
    L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
    Mai, né in concilio, parlavam diversi;
    Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
    Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
    Disegnavamo. Rovesciata l'alta
    Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
    Navi saliti, si divise il campo.
    Così piacque al Saturnio; e ben si vide
    Da quell'istante, che un ritorno infausto
    Ci destinava il correttor del mondo.
    Senno non era, né giustizia in tutti:
    Quindi il malanno che su molti cadde,
    Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
    Di forte genitor nata, che cieca
    Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
    A parlamento in sul cader del Sole
    Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
    Che, intorbidati dal vapor del vino,
    Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
    Menelao prescrivea che l'oste tutta
    Le vele aprisse del ritorno ai venti;
    Ma ritenerla in vece Agamennòne
    Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
    Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
    Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
    Quando per fumo d'immolati tori
    Mente i numi non cangiano in un punto.
    Così, garrendo di parole acerbe,
    Non si movean dal lor proposto. Intanto
    Con insano clamor sorser gli Achivi
    Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
    L'altro agli altri piacea. Funeste cose
    La notte in mezzo al sonno agitavamo
    Dentro di noi: che dal disastro il danno
    Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
    Tirammo i legni, nel divino mare,
    E su i legni velìvoli le molte
    Robe imponemmo e le altocinte schiave.
    Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
    Agamennòn rimanea ferma: l'altra
    Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
    Che Nettuno spianò, correa veloce.
    Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
    Anelando alla patria: ma nemico
    Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
    Che di nuovo partì tra loro i Greci.
    Alcuni che d'intorno erano al ricco
    Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
    Gratificar volean, torsero a un tratto
    Le quinci e quindi remiganti navi:
    Ma io de' mali che l'avverso nume
    Divisava, m'accorsi e con le prore,
    Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
    Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
    Tutti animando i suoi. L'acque salate
    Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
    Menelao ci trovò, che della via
    Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
    Psiria lasciando dal sinistro lato,
    O invece sotto Chio, lungo il ventoso
    Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
    Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
    Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
    Navigammo alla volta, onde con quanta
    Fretta si potea più, condurci in salvo.
    Sorse allora e soffiò stridulo vento,
    Che volar per le nere onde, e notturni
    Sorger ci feo sovra Geresto, dove
    Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
    Misurato gran mar, molte di tori
    Cosce ponemmo in su la viva brace.
    Già il dì quarto splendea, quando i compagni
    Del prode ne' cavalli Dïomede
    Le salde navi riposaro in Argo:
    Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
    Con quel vento, cui pria mandato in poppa
    M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
    Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
    Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
    Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
    Celare a te certo non vuolsi. È fama
    Che felice ritorno ebber gli sperti
    Della lancia Mirmìdoni, che il degno
    Figliuol guidava dell'altero Achille.
    Felice l'ebbe Filottète ancora,
    L'illustre prole di Peante. In Creta
    Rimenò Idomenèo quanti compagni
    Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
    Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
    D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
    Benché lontani dimoriate, udiste,
    E qual gli tramò Egisto acerba morte.
    Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
    Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
    Quel dell'Atride vendicossi a pieno
    Dell'omicida fraudolento e vile,
    Che morto aveagli sì famoso padre.
    Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
    Di sembiante non men grande che bello,
    Fortezza impara, onde te pure alcuno
    Benedica di quei che un dì vivranno».
    «Nestore, degli Achei gloria immortale»,
    Telemaco riprese, «ei vendicossi,
    E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
    Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
    Non infuser gli dèi tanto di lena,
    Che dell'onte de' proci e delle trame
    Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
    Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
    Tanta felicità dagl'immortali
    Fu destinata, e tollerar m'è forza».
    «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre
    «Mi riduci alla mente, odo la casa
    Molti occuparti a forza, e insidïarti,
    Vagheggiatori della madre. Dimmi:
    Volontario piegasti al giogo il collo?
    O in odio, colpa d'un oracol forse,
    I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
    Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
    Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
    Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
    Se te così Pallade amasse come
    A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
    (Sì palese favor d'un nume, quale
    Di Pallade per lui, mai non si vide)
    Se ugual di te cura prendesse, ai proci
    Della mente uscirìan le belle nozze».
    E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso
    Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
    Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
    Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
    Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado».
    «Qual ti sentii volar fuori de' denti,
    Telemaco, parola? allor soggiunse
    La dea che lumi cilestrini gira.
    «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
    Ripatrïar dai più remoti lidi.
    Io per me del ritorno anzi torrei
    Scorgere il dì dopo infiniti guai,
    Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
    Cader, come d'Egisto, e dell'infida
    Moglie per frode il miserando Atride.
    La morte sola, comun legge amara,
    Gli stessi dèi né da un amato capo
    Distornarla potrìan, quandunque sopra
    Gli venga in sua stagion l'apportatrice
    Di lunghi sonni disamabil parca».
    «E temo io ben», Telemaco rispose,
    «Che una morte crudel, non il ritorno,
    Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
    Ma di questo non più: benché agli afflitti
    Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
    Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
    Che vede assai più là d'ogni mortale,
    E l'età terza, qual si dice, or regna,
    Tal che mirare in lui sembrami un nume.
    Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
    Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
    Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
    Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
    L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
    Tanto miglior di sé? Non era dunque
    Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
    Lontano errava tra straniere genti,
    E quei la spada, imbaldanzito, strinse?»
    Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
    «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
    Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
    Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
    Nel palagio trovava Egisto in vita,
    Non si spargea sul costui morto corpo
    Un pugno scarso di cavata terra:
    Fuor delle mura, sovra il nudo campo
    Cani e augelli voravanlo, né un solo
    Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
    Noi sotto Troia, travagliando in armi,
    Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
    Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
    Con detti aspersi di dolce veleno
    La moglie dell'Atride iva blandendo.
    Rifugìa prima dall'indegno fatto
    La vereconda Clitennestra, e retti
    Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
    Cui di casta serbargliela l'Atride
    Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
    Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
    La infelice dovea, quegli, menato
    A un'isola deserta il vate in seno,
    Colà de' feri volator pastura
    Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
    Non ripugnante, l'infedel regina.
    E molte cosce del cornuto armento
    Su l'are il folle ardea, sospendea molti
    Di drappi d'oro sfavillanti doni,
    Compiuta un'opra che di trarre a fine
    Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
    Già partiti di Troia, e d'amistade
    Congiunti, battevam lo stesso mare
    Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
    Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
    Che il suo nocchier, che del corrente legno
    Stava al governo, un'improvvisa uccise
    Di Febo Apollo mansueta freccia,
    L'Onetoride Fronte, uom senza pari
    Co' marosi a combattere e co' venti.
    L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
    Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
    E d'esequie onorollo e di sepolcro.
    Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
    Giunto della Malèa, cammin felice
    Non gli donò l'onniveggente Giove.
    Venti stridenti e smisurati flutti,
    Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
    E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
    Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
    Alle correnti del Giardano in riva.
    Liscia e pendente sovra il fosco mare
    Di Gortina al confin, sorge una rupe,
    Contro alla cui sinistra, e non da Festo
    Molto lontana punta, Austro i gran flutti
    Caccia; li frange un piccoletto sasso.
    Là, percotendo, si fiaccaro i legni
    Scampate l'alme a gran fatica, e sole
    Cinque altre navi dall'azzurra prora,
    Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
    Mentre con queste Menelao tra genti
    D'altra favella s'aggirava, e forza
    Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
    Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
    Agamennòne a tradimento spense,
    Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
    Della ricca Micene il fren ritenne.
    Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
    Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
    Che il perfido assassin del padre illustre
    Spogliò di vita, e la funèbre cena
    Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
    Madre non men, che per l'imbelle drudo.
    Lo stesso giorno Menelao comparve,
    Tanta ricchezza riportando seco,
    Che del pondo gemean le stanche navi.
    Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
    Lasciando in preda le sostanze ai proci,
    Che ciò tra lor che non avran consunto,
    Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
    Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
    Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
    Donde altri, che in quel mar furia di crudo
    Vento cacciasse, perderia la speme
    Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
    Che nel giro d'un anno augel nol varca.
    Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
    Più di tuo grado la terrestre via,
    Cocchio io darotti e corridori, e i miei
    Figli, che guideranti alla divina
    Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
    Pregalo, e non temer che le parole
    Re sì prudente di menzogna involva».
    Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
    Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
    Si frappose così: Buon vecchio, tutto
    Dicesti rettamente. Or via, le lingue
    Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
    Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
    I libamenti, si procuri ai corpi
    Riposo e sonno, come il tempo chiede.
    Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
    Troppo a lungo seder prandio solenne».
    Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
    Dier subito alle man, di vino l'urne
    Coronaro i donzelli, ed il recaro,
    Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
    I convitati s'alzano, e le lingue
    Gittan sul fuoco, e libano. Libato
    Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
    Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
    Ritirarsi voleano al cavo legno.
    Ma Nestore fermolli, e con gentile
    Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse,
    «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
    Qual tapino mortale, a cui la casa
    Di vestimenti non abbonda e coltri,
    Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
    Mollemente s'addormino. Credete
    Che a me vesti non sieno e coltri belle?
    No; su palco di nave il figlio caro
    Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
    E vivo un sol de' figli miei, che quanti
    Verranno alle mie case ospiti accolga».
    «O vecchio amico», replicò la diva
    Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
    «Motto da te non s'ode altro che saggio.
    Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
    Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
    E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
    A confortar rivolgomi, e di tutto
    Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
    Que' giovani d'età, che non maggiori
    Di Telemaco sono, e accompagnarlo
    Voller per amistade. In sul naviglio
    Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
    Ai Caucòni magnanimi non lieve
    Per ricevere andrò debito antico.
    E tu questo garzon, che a te drizzossi,
    Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
    De' corridori, che in tue stalle nutri,
    I più ratti gli accoppia e più gagliardi».
    Qui fine al dir pose la dea, cui ride
    Sotto le ciglia un azzurrino lume,
    E si levò com'aquila, e svanìo.
    Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
    Visto il portento, s'ammirava; e, preso
    Telemaco per man, nomollo e disse:
    «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
    Figliuol mio, non sarai, quando compagni
    Così per tempo ti si fanno i numi.
    Degli abitanti dell'Olimpie case
    Chi altri esser porìa che la pugnace
    Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
    Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
    Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
    Guardami, e a me co' figli e con la casta
    Consorte gloria non vulgar concedi.
    Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
    Che vide un anno solo, e al giogo ancora
    Non sottopose la cervice indoma.
    Questa per te cadrà con le vestite
    Di lucid'oro giovinette corna».
    Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
    Generi e figli al suo reale ostello
    Nestore precedea. Giunti, posaro
    Su gli scanni per ordine e su i troni.
    Il re canuto un prezïoso vino,
    Che dalla scoverchiata urna la fida
    Custode attinse nell'undecim'anno,
    Lor mescea nella coppa, e alla possente
    Figlia libava dell'Egìoco Giove,
    Supplichevole orando. E gli altri ancora
    Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
    Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
    Ma nella sua magione il venerato
    Nestore vuol che del divino Ulisse
    La cara prole, in traforato letto
    Sotto il sonante portico, s'addorma;
    E accanto a lui Pisistrato, di gente
    Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
    Celibe vita. Ei del palagio eccelso
    Si corcò nel più interno; e la reale
    Consorte il letto preparògli e il sonno.
    Tosto che del mattin la bella figlia
    Con le dita rosate in cielo apparve,
    Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
    S'assise all'alte porte, in sui politi
    Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
    Su cui sedea par nel consiglio ai numi
    Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
    Nelle case di Pluto era già sceso.
    Nestore allora, guardïan de' Greci,
    Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
    Di loro stanza maritale anch'essi,
    Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
    Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
    E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
    Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
    D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
    Collocârlo del padre, che le labbra
    In queste voci aprì: «Figli diletti,
    Senza dimora il voler mio fornite.
    Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
    Non degg'io venerar, che nel solenne
    Banchetto sacro manifesta io vidi?
    Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
    Perché tirata dal bifolco giunga
    Ratto la vaccherella. Un altro mova
    Dell'ospite alla nave e, salvo due,
    Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
    Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
    Della giovenca ad inaurar le corna.
    Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
    Faccian le mense apparecchiar, sedili
    Apportar nel palagio, e tronca selva,
    E una pura dal fonte acqua d'argento».
    Non indarno ei parlò. Venne dal campo
    La giovinetta fera, e dalla nave
    Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
    Tutti recando gli strumenti e l'armi,
    L'incude, il buon martello e le tanaglie
    Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
    Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
    Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
    Domato l'ebbe, ne vestì le corna
    Della giovenca, acciocché Palla, visto
    Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
    Per le corna la vittima Echefróne
    Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
    Purissim'onda in un bacile, a vaghi
    Fiori intagliato, d'una man portava,
    Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
    Il bellicoso Trasimede in pugno
    Stringea l'acuta scure, che sul capo
    Scenderà della vittima; ed il vaso,
    Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
    Ma de' cavalli il domator, l'antico
    Nestore, il rito cominciò: le mani
    S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
    Pregava molto, nell'ardente fiamma
    Le primizie gittando, i peli svelti
    Dalla vergine fronte. Alla giovenca
    S'accostò il forte Trasimede allora
    E con la scure acuta, onde colpilla,
    Del collo i nervi le recise, e tutto
    Svigorì il corpo: supplicanti grida
    Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
    Di Nestor donna Euridice, che prima
    Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
    Poi la buessa, che giacea, di terra
    Sollevâr nella testa, e in quel che lei
    Reggean così, Pisistrato scannolla.
    Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
    E abbandonate dallo spirto l'ossa,
    La divisero in fretta: ne tagliaro
    Le intere cosce, qual comanda il rito,
    Di doppio le covriro adipe, e i crudi
    Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
    Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
    Di rosso vin, mentre abili donzelli
    Spiedi tenean di cinque punte in mano.
    Arse le cosce e i visceri gustati,
    Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
    Che rivolgeano ed arrostìano infissi
    Negli acuti schidoni. Policasta,
    La minor figlia di Nestorre, intanto
    Telemaco lavò, di bionda l'unse
    Liquida oliva, e gli vestì una fina
    Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
    Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
    Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
    Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
    Abbrostite le carni ed imbandite,
    Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
    Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
    Ricolmavan le ciotole dell'oro.
    Ma poiché spenti i naturali fûro
    Della fame desiri e della sete,
    Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
    «Miei figli, per Telemaco, su via,
    I corridori dal leggiadro crine
    Giungete sotto il cocchio». Immantinente
    Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
    Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
    Candido pane e vin purpureo e dapi,
    Quai costumano i re, di Giove alunni,
    La veneranda dispensiera pose.
    Telemaco salì, salì l'ornata
    Biga con lui Pisistrato, di gente
    Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
    Nella man tolte, con la sferza al corso
    I cavalli eccitò, che alla campagna
    Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
    Di Pilo s'abbassavano le torri.
    Squassavano i destrier tutto quel giorno
    Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
    Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diocle arrivàr, del prode figlio
    Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
    Ebber tranquilli ed ospitali doni.
    Ma come del mattin la bella figlia
    Comparve in ciel con le rosate dita,
    Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
    Biga salîro, e del vestibol fuori
    La spinsero, e del portico sonante.
    Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
    Lietamente volaro. I pingui campi,
    Di ricca messe biondeggianti, indietro
    Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
    Gli allenati destrier movean le gambe,
    Che l'Itacense e il Pilïese al fine
    Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
    Il sol caduto, si coprìa la terra.

    ho un po' di problemi con moby dick...... non temere
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